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L’atteso rapporto Onu sulla regione cinese dello Xinjiang ha messo in luce possibili “crimini contro l’umanità” menzionando “prove credibili” di torture e violenze sessuali contro la minoranza uigura e invitando la comunità internazionale ad agire.

“L’entità della detenzione arbitraria e discriminatoria di membri della comunità uigura e di altri gruppi a maggioranza musulmana può equivalere a crimini internazionali, in particolare crimini contro l’umanità”, si legge nel rapporto.

Michelle Bachelet, Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani arrivata all’ultimo giorno di mandato, ha mantenuto in extremis la promessa di pubblicare il rapporto contestato da Pechino, che lo ritiene “una farsa” orchestrata dall’Occidente, Washington in testa.

Per quanto il documento non sembri contenere alcuna rivelazione rispetto a quanto era già noto sulla situazione nello Xinjiang, la sua pubblicazione è ritenuta importante perché le accuse a Pechino stavolta portano il sigillo dell’Onu.

“Le accuse di pratiche ricorrenti di tortura o maltrattamenti, comprese le cure mediche forzate e le cattive condizioni carcerarie, sono credibili, così come le accuse individuali di violenza sessuale e di genere”, si legge nel rapporto.

“Meglio tardi che mai. Questo momento sarà decisivo”, ha detto Sophie Richardson, direttrice dell’ong Human Rights Watch per la Cina. Parlando prima della pubblicazione del documento, l’attivista ha anticipato che il suo contenuto avrebbe dimostrato “che nessuno Stato è al di sopra della legge”.

Più del contenuto, è l’esistenza e la pubblicazione che sono importanti, secondo Richardson, perché obbligheranno il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ad occuparsi del caso. D’altra parte, la Cina ha continuato a ripetere i suoi giudizi negativi sul documento. L’ambasciatore cinese all’Onu, Zhang Jun, ha ribadito “di essere fermamente contrario al rapporto”.

“Il cosiddetto problema dello Xinjiang è una bugia totalmente inventata e politicamente motivata” che sta frenando lo sviluppo della Cina, ha affermato, accusando Bachelet di “interferire negli affari interni della Cina”.

Da parte sua, Bachelet – accusata di essere troppo indulgente nei confronti di Pechino – ha risposto che il dialogo con le autorità cinesi, come ha fatto in particolare durante un controverso viaggio in Cina a maggio, “non significa chiudere gli occhi” di fronte alle violazioni.

Lo Xinjiang, così come altre province della Cina, è stato colpito per diversi decenni, e in particolare dal 2009 al 2014, da attacchi attribuiti a islamisti o separatisti uiguri. Da diversi anni la regione è oggetto di un’intensa sorveglianza: telecamere onnipresenti, cancelli di sicurezza negli edifici, forze armate ben visibili nelle strade, restrizioni al rilascio dei passaporti.

Negli ultimi anni sono emerse le accuse a Pechino di aver internato in campi di rieducazione almeno un milione di persone, in maggioranza uiguri, ma anche di effettuare sterilizzazioni e aborti “forzati” o di imporre “lavori forzati”.

La Cina nega queste accuse. Pechino presenta i “campi” anche come “centri di formazione professionale” destinati a tenere gli abitanti lontani dall’estremismo religioso, e che ora sarebbero chiusi perché tutti gli “studenti” avrebbero “completato la loro formazione”.

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